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Le più recenti pronunce, fra cui la nota Cass., SS. UU., n. 6572 del 24/3/2006 hanno ormai completamente accettata la tesi che vede il danno da “demansionamento” come danno esistenziale lesivo del diritto del singolo all’autorealizzazione nell’ambito lavorativo, riconducibile nel più vasto concetto di tutela dell’individuo sia come singolo che all’interno della società, esplicitato nell’at. 2 della Costituzione.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, risolvendo un contrasto giurisprudenziale esistente in tema di prova del danno derivante dalla condotta illecita ed inadempiente, ex art. 1218 c.c., del datore di lavoro, per violazione dei obblighi di cui agli artt. 2103 e 2087 c.c., ha avuto modo di affermare che “dall'inadempimento datoriale non deriva automaticamente l'esistenza del danno, ossia questo non è, immancabilmente, ravvisabile a causa della potenzialità lesiva dell'atto illegittimo” (Cass., Sez. Unite. Civ., 14 marzo 2006, n. 6527).
Per quanto concerne l’ipotesi specifica del danno professionale, la Suprema Corte, ha affermato che lo stesso “può verificarsi in diversa guisa, potendo consistere sia nel pregiudizio derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità ovvero nel pregiudizio subito per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno”; “tale pregiudizio”, continua la Corte, “non può essere riconosciuto, in concreto se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l'esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all'esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”(Cass., Sez. Unite. Civ., 14 marzo 2006, n. 6527).
In ragione di tanto, senza capovolgere con ciò l’onere della prova e pur ricordando che - come sancito dalla Cass. n. 4766 del 06/03/06 - “in caso di giudizio per dequalificazione e/o per demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 c.c., ha statuito che incombe al datore di lavoro l’onere probatorio in ordine all'esatto adempimento, in quanto è onere del datore di lavoro provare la mancanza, di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali, disciplinari o da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” - è di conseguenza assolutamente necessario verificare ed indicare i danni subiti dal lavoratore dequalificato e fornire la prova degli stessi.
Va comunque incider tantum ricordato che stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un comportamento gi ritenuto illecito sul piano contrattuale.
Cosicché, se nel primo caso il danno deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2103 c.c. (divieto di dequalificazione), nel secondo deriva dalla violazione dell’obbligo di cui all’articolo 2087 c.c. (tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) norma che inserisce, nell’ambito del rapporto di lavoro, i principi costituzionali.
In entrambi i casi, tuttavia - e ciò è ribadito dalla Cass. SS. UU. n. 6572/06 -, giacché l’illecito consiste nella violazione dell’obbligo derivante dal contratto, il datore versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall’articolo 1218 c.c., con conseguente esonero dall’onere della prova sulla sua imputabilità, che va regolata in stretta connessine con l’articolo 1223 c.c.
Vi è da aggiungere che l’ampia locuzione usata dall’articolo 2087 c.c. (tutela della integrità fisica e della personalità morale del lavoratore) deve assicurare il diretto accesso alla tutela di tutti i danni non patrimoniali, e che quindi non è necessario, per superare le limitazioni imposte dall’articolo 2059 c.c. (sulla evoluzione di detta tematica vedi Corte costituzionale 233/03 e l’indirizzo inaugurato da Cassazione 7283/03), verificare se l’interesse leso dalla condotta datoriale sia meritevole di tutela in quanto protetto a livello costituzionale, perché la protezione è già chiaramente accordata da una disposizione del c.c.
Le voci di danno prospettabili si riferiscono sia al danno strettamente professionale derivante dalla dequalificazione (nel quale possono essere ricompressi come specifici aspetti sia la perdita di chances che il danno all’immagine), sia al danno biologico ove accertabile, sia alla lesione di interessi costituzionalmente protetti.
Stante ciò, è comunque pacifico che necessariamente occorrerà attenersi ad una liquidazione di tipo equitativo e la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura del suddetto danno e nella funzione che il risarcimento intende realizzare mediante la dazione di una somma di denaro che non potrà mai essere concretamente reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma unicamente compensativa di un pregiudizio non economico.
Alla luce delle statuizioni sopra ricordate delle Sezioni Unite della cassazione, invero non vi è dubbio che il demansionamento subito ingiustamente e progressivamente generi un pregiudizio derivante sia dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore, sia dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità nell’espletamento delle mansioni attribuitegli e svolte ininterrottamente dal giorno dell’assunzione a quello della sua progressiva dequalificazione. Pertanto, il demansionamento perpetrato ai danni di un lavoratore, che è stato ingiustamente privato delle sue mansioni, produce un danno alla sua professionalità, derivante dal mancato aggiornamento professionale relativo ad es. alle conoscenza delle novità normative riguardante il settore di sua competenza, ed, in ogni caso, dai mancati vantaggi connessi all’esperienza professionale e che egli non ha conseguito per effetto dell’inattivit forzata cui è stato sottoposto e che si è protratta nel tempo.
Trattandosi di inadempimento dell'obbligo contrattualmente assunto dal datore di lavoro, ex art. 1218 c.c., al lavoratore spetta il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, liquidati in via equitativa (Cass. 4 febbraio 1997, n. 1026 ; Cass. 27 aprile 1999, n. 4221).
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Per arrivare alla dimostrazione richiesta - secondo i dettami della Cass. SS. UU. n. 6572 del 24/03/2006 - del danno esistenziale, conseguente ad esempio ad una conclamata ipotesi di mobbing, si potrà (ed in alcuni casi si dovrà) far ricorso alle presunzioni (v. anche Cass., n. 8827 del 31/5/2003; Cass., n. 8828 del 31/5/2003; Cass., n. 12124 del 19/8/2003; Cass., n. 15022 del 15/7/2005), le quali - come affermato in giurisprudenza di legittimità (v. Cass., SS.UU., n. 6572/06,) e sostenuto anche in dottrina - non costituiscono uno strumento probatorio di rango “secondario” nella gerarchia dei mezzi di prova e “più debole” rispetto alla prova diretta o rappresentativa.
Alla stessa stregua di quella legale, la presunzione dovrebbe servire a sostanzialmente facilitare l’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi ne è gravato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova contraria.
Secondo la Suprema Corte, infatti, “la presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono unicamente in ordine al modo di insorgenza, in quanto mentre il fatto sul quale la prima si fonda dev’essere provato in giudizio, e il relativo onere grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata e sia stata rilevata (cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia stata data o risulti la prova), essa ha la medesima efficacia che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, quando viene rilevata, in quanto l’una e l’altra trasferiscono a colui, contro il quale esse depongono, l’onere della prova contraria» (così Cass., n. 13291 del 27/11/1999).
Secondo poi la recentissima Cassazione n. 13546 del 12 giugno 2006, da tale considerazione consegue il ritenere la parte onerata ex art. 2697 c.c.. sollevata dal provare il fatto previsto (che, come posto in rilievo anche in dottrina, deve considerarsi provato ove provato il «fatto base»).
Come per quella legale, anche per la presunzione semplice in assenza di prova contraria (quando, come nel caso, ammessa) il Giudice è tenuto a ritenere provato il fatto previsto, non essendogli consentita al riguardo la valutazione ai sensi dell'art. 116 c.p.c.
Orbene, nel caso del danno esistenziale derivante dall’essere stato vittima di mobbing, a meno di non voler sottoporre il lavoratore ad una probatio diabolica, occorre considerare che è dato di comune esperienza e, quindi, fatto notorio ex art. 115 c.p.c., che l’essere sottoposto senza soluzione di continuità a continue vessazioni e attacchi sul luogo di lavoro, determina automaticamente un’oggettiva mortificazione delle proprie aspettative, una mancata autorealizzazione alla quale il lavoratore mirava con il proprio impegno di lavoro, un danno d’immagine nell’ambiente di lavoro e all’esterno in diretta conseguenza di un intuitivo discredito e un danno alla reputazione (e talora all’onorabilità) di cui viene ad essere oggettivamente gravato: se l’azienda lo ha isolato, attaccato (rectius mobbizzato), all’interno e all’esterno, è communis opinio che la misura sanzionatoria o pseudo sanzionatoria sar dovuta al riscontro di una incapacità professionale o a inattitudine al disimpegno delle mansioni originarie ovvero dall’aver compiuto qualche sbaglio.
Quanto poi alla materiale liquidazione del danno, è evidente che essa può avvenire soltanto in termini equitativi che debbono avere riguardo alla natura, all’intensità e alla durata delle compromissioni esistenziali che si sono rilevate. |