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Il 29 agosto scorso, la V Sezione della Cassazione Penale (Pres. Pizzuti - Rel. Sandrelli), pubblicava la sentenza n. 33624, affermando in linea di principio che nell'ipotesi di mobbing basato su una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti nell'esprimere l'ostilità del soggetto attivo verso la vittima, non è possibile individuare la violazione di una specifica norma penale, nella specie quella che integra il reato di lesioni personali volontarie.
La notizia veniva riportata dall’ANSA e iniziava un veloce tam tam fra le maggiori testate giornalistiche. Titolava, ad esempio, La Repubblica il giorno stesso “La sentenza conferma una decisione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Secondo i magistrati la fattispecie non è prevista dal nostro codice penale. La Cassazione: il mobbing non è reato. Possibile solo il risarcimento” . Così contemporaneamente Il Sole 24ore: “Il mobbing non è reato penale, ma solo illecito civile”. Ugualmente il Corriere della Sera il 30 agosto “Nel nostro Codice penale non esiste una precisa «figura incriminatrice» . La Cassazione: «Il mobbing non è reato». Respinto il ricorso di una insegnante campana contro il preside. Se non si prova la reiterazione della persecuzione, niente condanna”.
Stampa e televisione, forse non dedicando la giusta attenzione al comunicato, ingeneravano uno smisurato clamore intorno al caso giurisprudenziale sottoposto all’esame della Cassazione e l’assenza di ogni chiarimento e approfondimento sul principio riportato nella massima in questione stravolgeva il senso esatto del concetto espresso dai Giudici del Palazzaccio, con la conseguenza che una falsa notizia finiva per fomentare la confusione di molti lettori.
Nell’intento di fare chiarezza, riteniamo opportuna l’occasione per offrire alcuni spunti di riflessione che possono aiutare a comprendere il reale significato della sentenza in esame, nonché le conseguenze giuridico-pratiche sul piano della tutela giudiziaria, penale e civile, esperibile in caso di mobbing.
1. L’ACCUSA DI MOBBING E IL RAPPORTO FRA IL GIUDIZIO PENALE E IL GIUDIZIO CIVILE.
Prima di analizzare fino ad oggi come la Magistratura Penale ha affrontato l’argomento “mobbing”, occorre brevemente chiarire che la scelta di procedere attraverso la querela/denuncia dell’aggressore, o mobber che dir si voglia, è solo una delle chances di tutela che chi si sente colpito da una condotta vessatoria sul lavoro può intraprendere. L’attivazione di un procedimento penale, infatti, in nulla osta al ricorso in contemporanea al Giudice del Lavoro per il ristoro dei danni subiti.
Più volte è stato ribadito come i riflessi negativi di una condotta di mobbing (anche largamente intesa come comportamento vessatorio e molesto sul luogo di lavoro) possono incidere su diritti individuali inviolabili e costituzionalmente protetti, quali quello alla personalità, alla dignità e alla salute e possono altresì colpire anche diritti patrimoniali riducendo, in modo temporaneo o permanente, la capacità di lavoro e/o di guadagno. Di guisa, il mobbing, quando ricollegabile al comportamento di un terzo gerarchicamente dipendente dal medesimo datore di lavoro e/o comunque quando addebitabile a quest’ultimo per omessa tutela e vigilanza, se determina un danno suscettibile di prova può far sorgere il diritto al risarcimento del danneggiato secondo le regole del diritto contrattuale (artt. 1218, 2059, 208 e 2043 c.c.).
Competente sul merito della richiesta risarcitoria avanzabile a mezzo ricorso nelle forme e nei termini di cui all’art. 420 c.p.c. è il Giudice Monocratico del Lavoro presso il Tribunale “nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso il quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto” ovvero “per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto di lavoro” (v. art. 413 c.p.c.).
Ma non solo. Alcuni dei tipici comportamenti che integrano la condotta di mobbing possono, infatti, astrattamente assumere anche rilevanza penale. Possono ben essere menzionati fra gli atteggiamenti sussumibili nell’ambito della condotta di mobbing le lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), la violenza sessuale (art.609 bis c.p.), la violenza privata (art. 610 c.p.), l’ingiuria (art. 594 c.p.), la diffamazione (art. 595 c.p.), le molestie (art. 660 c.p.) e la minaccia (art. 612 c.p.). In tal caso, la persona offesa dal reato, sporgendo un’apposita querela contro il responsabile delle suddette condotte, può rivolgersi alla Magistratura Penale, senza con ciò comunque compromettere o impedire il ricorso intrapreso o che si vuole intraprendere davanti al Giudice del Lavoro.
È importante, infatti, sottolineare che l'azione civile meramente risarcitoria, fondata su un fatto che rilevi ai sensi dell'art. 2043 e/o 2087 c.c. e, allo stesso tempo, costituisca fattispecie penalmente considerata, può essere esperita sia attraverso un'opzione penale - vale a dire mediante querela e costituzione di parte civile nel processo penale -, sia attraverso un'opzione civile. Ciò per lo meno quando il danneggiato adisce il Tribunale del Lavoro prima dell'inizio dell'azione penale ovvero quando la costituzione di parte civile non gli è più consentita, ma prima che sia stata emessa sentenza penale di primo grado.
Per effetto della riforma del Codice di Procedura Civile del 1990, che ha modificato il precedente art. 295 c.p.c. da cui discendeva la sospensione necessaria del processo civile “ogni volta che la sua decisione potesse essere influenzata dall'esito del processo penale”, persistono infatti attualmente solo due residualissime ipotesi di sospensione, mentre in linea di principio vige una netta separazione fra il processo civile e quello penale, nonostante la possibilità di giudicati contraddittori e la duplicazione d'attività giudiziarie.
In pratica, la tutela del sedicente danneggiato si atteggia in duplice guisa: -
con l'opzione penale, egli si costituisce parte civile ai sensi dell'art. 74 c.p.p., ovvero, ancorché abbia proposto già azione in sede civile, può trasferirla, mediante costituzione di parte civile, nel processo penale, finché in quest’ultima sede non sia stata emessa sentenza di merito anche non passata in giudicato (art. 75, 1° c.p.p.). In tal caso, poiché si intende rinunciata l'azione civile ed il giudice penale e chiamato a decidere anche sulle spese del giudizio civile, viene eliminato qualsiasi problema di concorrenza o di interferenza tra i due giudizi. -
con l'opzione civile, il preteso danneggiato agisce (art. 75, 2° c.p.p.) in sede civile prima dell'inizio dell'azione penale senza trasferirla in sede penale, allorché ciò gli sarebbe consentito, ovvero agisce in sede civile quando non gli è più consentita la costituzione di parte civile, ma prima che nel giudizio penale sia emessa sentenza di primo grado (art. 75, 3° c.p.p.). In entrambe quest’ultime ipotesi, i processi rimangono separati e l'azione civile prosegue indisturbata, sebbene la probabilità di esiti contradditori (ad es. condanna al risarcimento in sede civile ed assoluzione successiva in sede penale).
Ciò è possibile in quanto la condanna irrevocabile in sede penale ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento ex art. 651 c.p.p., mentre l'assoluzione irrevocabile in sede penale non pregiudica l'attore del giudizio civile (art. 652 c.p.p.).
Quindi, chi sceglie di affidare fin dall'inizio le proprie ragioni al rimedio civilistico, ovvero di chi deve adottare tale scelta non potendo più inserirsi nel processo penale (ma sempre prima che venga emessa sentenza penale di primo grado) si avvantaggia della sentenza di condanna a carico del convenuto nel processo civile, ma non sarà pregiudicato dall'assoluzione del giudice penale, perché egli non ha partecipato al giudizio penale.
Diversamente avviene se l'azione civile viene proposta dopo la costituzione di parte civile (nel qual caso la costituzione di parte civile si intende revocata ex art. 82 c.p.p.) o, anche se non vi era già stata costituzione di parte civile, dopo l'emissione di sentenza penale di primo grado: in questi due casi (e solo in questi) il giudizio civile rimane sospeso (art. 75, 3° c.p.p.) fino alla pronuncia irrevocabile in sede penale e salvi i casi previsti dalla legge, che sono i seguenti tre: a) art. 71 c.p.p. (sospensione del procedimento penale a causa dell'incapacità dell'imputato); b) art. 88, 3° c.p.p. (esclusione della parte civile); c) art. 441, 2° e 3° c.p.p. (giudizio abbreviato).
La siffatta disciplina trova un’agevole spiegazione: l'interessato, essendosi costituito parte civile, potrebbe volere optare per il giudizio civile ovvero, senza prima essersi costituito parte civile, decidere di iniziare processo civile, perché ha visto che il danneggiante, ad esempio, è stato condannato con sentenza di primo grado in sede penale: nel primo caso la parte civile che revoca la costituzione di parte civile non sarà invogliata a farlo se sa che il giudizio civile da essa invocato (e che provocherebbe la revoca della costituzione di parte civile) sarà sospeso e si eviteranno così inutili duplicazioni di giudizi; nel secondo caso, essendo stata emessa già una sentenza penale di primo grado, è più ragionevole attendere l'esito finale del giudizio penale, che farà stato dunque in quello civile, anche se favorevole all'imputato (art. 652 c.p.c.).
In sintesi dunque la querela penale del diretto responsabile del comportamento offensivo e il ricorso al Giudice del Lavoro per il ristoro dei danni subiti sono strade entrambe percorribili per la presunta vittima di mobbing. Esse sono, concludendo, sia proceduralmente e sia sostanzialmente, indipendenti ed autonome.
Anche sotto il profilo sostanziale, infatti, la stessa circostanza lesiva benissimo può non avere una rilevanza penale - non integrando gli estremi del reato e non rientrando in una delle fattispecie tipiche del codice penale - ma al contempo assurgere a rilievo di illecito civile e in quanto tale essere produttivo di un danno risarcibile. Molto più improbabile naturalmente è l’ipotesi inversa, poiché ex art. 185 c.p. “Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale (598; 2059 c.c.), obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui (2043-2054 c.c.)”.
Se infatti nell’ambito del nostro ordinamento, per un verso, vige il principio (c.d. si legalità) nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali, per cui reato è solo quel fatto previsto dalla legge, irretroattivamente, in forma tassativa, materialmente estrinsecantesi nel mondo esteriore, offensivo di valori costituzionali (o comunque non incostituzionali), attribuibile a un soggetto causalmente e psicologicamente e sanzionato con pene proporzionali al rilievo del valore tutelato, per altro verso “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.” (art. 2043 c.c.).
2. I PRECEDENTI PENALI SUL MOBBING
Detto ciò, occorre chiarire che la sentenza n. 33624/07 dell’agosto scorso non rappresenta affatto il primo ed unico caso in cui la Magistratura Penale, anche di legittimità, si sia già pronunciata in ordine alla rilevanza penale degli elementi propri della fattispecie di mobbing.
Come già chiarito, il principio di legalità rappresenta un aspetto fondamentale del diritto penale e corrisponde all'esigenza che la produzione e l'applicazione delle norme penali siano sottoposte unicamente al monopolio della legge. Di guisa, ai fini dell’effettiva configurabilità di una ipotesi di reato, occorrerà, in pratica, verificare se le condotte rappresentate in genere come di mobbing integrino nel caso specifico i requisiti oggettivi che le norme incriminatici di riferimento qualificano come elementi strutturali delle fattispecie previste dal codice penale. E, in caso di risposta affermativa, stabilire se i comportamenti persecutori abbiano prodotto conseguenze lesive in capo alla vittima e se tali conseguenze possano costituire l’evento offensivo previsto dalle ipotesi di reato individuata. Inoltre, al fine di stabilire l’imputabilità del reato imputato, sarà indispensabile accertare l’esistenza dell’elemento psicologico contemplato dal Legislatore nelle forme del dolo o della colpa.
Considerato allora che dal nostro codice penale non è prevista la fattispecie incrinatrice tipica del reato di mobbing come condotta di per sé sanzionata, sebbene fino ad oggi tantissime siano state le denuncie ripetutamente sottoposte al vaglio delle Procure di tutt’Italia, è facile anche comprendere perché di fatto le sentenze di condanna che si contano - escludendo quelle aventi a oggetto congiuntamente anche i reati di violenza o molestia sessuale (v. Trib. Penale di Modena n. 58 del 01/02/’02, edita in www.fiba.it;) - sono ben poche.
Tra queste, la più originale è stata quella emessa dalla Cassazione Penale n. 10090 del 12 marzo 2001 che confermava la precedente condanna pronunciata dalla Corte d’Appello di Milano del 1° febbraio 1999 dichiarando gli imputati “colpevoli dei reati continuati di cui agli artt. 572 e 610 c.p., per avere, quale capogruppo responsabile di zona per le vendite porta a porta di prodotti per la casa (...), maltrattato, con atti di vessazione fisica e morale, alcuni giovani sottoposti alla sua autorità nello svolgimento della attività lavorativa e, inoltre, per avere, con i medesimi atti di violenza fisica e morale, costretto i predetti giovani a intensificare l’impegno lavorativo oltre ogni limite di accettabilità”. Va premesso che l’accusa in tal caso riguardava la condotta di un superiore gerarchico autore di “ripetute e sistematiche vessazioni fisiche e morali, consistite in schiaffi, calci, pugni, morsi, insulti, molestie sessuali (verso i suoi sottoposti)... al fine di costringerli a sopportare ritmi di lavoro forsennati, essendo il profitto dell’impresa direttamente proporzionale al volume delle vendite effettuate”.
Nel caso de quo la Corte Suprema escludendo l’iniziale imputazione di abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.), aveva ritenuto invece confacente alla fattispecie del caso concreto il reato rubricato sotto l’art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), dal momento che la norma incriminatrice altresì prevede le ipotesi di chi commette maltrattamenti “in danno di persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, per l’esercizio di una professione o di un’arte”.
Ciò, come argomentato nella suddetta sentenza, in primis per la correlazione effettivamente presente fra la vicenda in esame, identificata agli atti come di mobbing, e quella che è condotta materiale connotante il reato dei “maltrattamenti in famiglia”. Quest’ultima è infatti caratterizzata da una struttura necessariamente complessa, “nel senso che consta di una ripetizione di atti i quali possono essere anche tali che, singolarmente considerati, non costituiscono reato, essendo tuttavia idonei a rendere abitualmente dolorose le relazioni di vita del soggetto passivo con il soggetto attivo del reato” (così Cass. Pen. del 28/02/92, incidentalmente riportata in Codice Penale Commentato, a cura di Dall’Ora, sub art. 572, UTET).
La nozione di maltrattamenti, sottesa alla norma richiamata, secondo la Suprema Corte, si pone, quindi, in rapporto di genere a specie rispetto all’accezione concettuale e teorica del “mobbing” così come ampiamente definito in dottrina e giurisprudenza, condividendo, l’una e l’altra fattispecie, il dato della ripetititvità delle condotte offensive e della loro sistematicità, oltre a quello della strumentalità rispetto alla produzione dell’effetto dannoso voluto e quello dell’intenzionalità del contegno attuato.
La suddetta pronuncia, per quanto sui generis, non ha trovato per molto tempo alcun riscontro o seguito, tant’è che la stessa Corte di Cassazione (sentenza n. 31413 del 21/09/2006) in un altro caso per molti versi similare, diversamente pronunciandosi confermava la responsabilità penale, già stabilita nei gradi di giudizio precedenti, di un imprenditore e di taluni suoi preposti, per il reato di tentata violenza privata (art. 610 c.p.) per “aver minacciato numerosi lavoratori dipendenti, in maniera diretta o indiretta, che ove uno di loro non avesse rinunciato alla prosecuzione della causa di lavoro e ove tutti gli altri non avessero accettato la proposta novazione del rapporto di lavoro con declassamento dalla qualifica di impiegato a quella di operaio, sarebbero stati trasferiti (come poi avvenuto) alla palazzina LAF”.
In particolare, già all’epoca la Suprema Corte convalidava l'impianto giuridico elaborato dalla Corte di Appello, condividendo con essa che, nel complesso, il caso giudicato rientrasse nell'ambito del fenomeno mobbing, realtà sociale e fattuale non ancora prevista, in modo specifico, dalla legislazione, ma, comunque, già presa in considerazione dalla giurisprudenza di merito e di legittimità in termini di “atti e comportamenti (violenza, persecuzione psicologica) posti in essere dal datore di lavoro che mira a danneggiare il lavoratore al fine di estrometterlo dal lavoro, atteggiamenti svolti con carattere sistematico e duraturo”. Tuttavia chiariva “Può esservi condotta molesta e vessatoria o, comunque mobbing anche in presenza di atti di per sé legittimi e che, simmetricamente, non ogni demansionamento così come non ogni altro atto illegittimo dà luogo, a cascata, a mobbing. Affinché ciò avvenga, è necessario che quell'atto emerga come l'espressione, o meglio come uno dei tasselli, di un composito disegno vessatorio. In definitiva, per la sussistenza del fenomeno occorre che diverse condotte, alcune o tutte di par sé legittime, si ricompongano in un unicum, essendo complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore. Ciò non toglie, ovviamente, che tali condotte, esaminate separatamente e distintamente, possano essere illegittime e anche integrare fattispecie di reato.”
Fra queste due isolate pronunce della Cassazione Penale vale la pena poi di ricordare le poche altre sentenze dei Tribunali di merito che hanno concluso con la condanna o la assoluzione di datori di lavoro per comportamenti qualificati come di mobbing.
Ricordiamo in particolare:
- il Tribunale Penale di Torino del 1° agosto 2002, riguardante la condanna per lesioni personali colpose (infarto del microcardio) provocate “per negligenza, imprudenza, imperizia, e per inosservanza delle norme sull’igiene del lavoro, e segnatamente, degli artt. 2087 c.c., 3/1° comma 1, lettere a), f), l), m) e 4/5° comma, lettera c) D.Lgs. n. 626/’94” in ragione dell’accertata omissione della “valutazione del rischio da stress psico-fisico inerente alla (...) attività di vigilanza”, nonché per aver trascurato “di adottare tutti i provvedimenti tecnici, organizzativi e procedurali necessari per contenere tali rischi (...), di sottoporre il lavoratore a adeguato controllo sanitario, preventivo e periodico, mirato sul rischio specifico inerente a rischi da stress lavorativo, di informarsi e di informare e addestrare il Sig. (omissis) circa tale rischio specifico e sui modi per ovviare al rischio medesimo”;
- il Tribunale Penale di Lecce del 11 febbraio 2004 che condannava per il reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.c.) un dirigente pubblico per aver reiteratamente ridotto a mansioni inferiori, rispetto a quelle di pertinenza del profilo professionale rivestito dalla persona offesa, il proprio sottoposto attraverso svariati (tre, nell’arco di tre mesi) provvedimenti/ordini di servizio (espressamente qualificati quale “mobbing”);
- il più recente Tribunale Penale di Belluno del 30 gennaio 2007, che pur prosciogliendo l’imputato dal reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p, ha esaminato in astratto la riconducibilità del mobbing a tale fattispecie tipica, all’uopo chiarendo che tale imputabilità non esigerebbe la necessaria compromissione dell’integrità psicofisica del soggetto offeso dalla condotta, potendo al contrario questa involgere ed offendere la (sola) sfera morale, di pertinenza di colui che ne sia fatto destinatario.
3. QUALE ALLORA LA CLAMOROSA NOVITÀ DELLA SENTENZA N. 33624 DEL 29 AGOSTO 2007?
Anche dalla lettura delle pronunce testé citate, l’essenza del problema si coglie intuitivamente. Stante il principio di legalità del diritto penale, di cui è specificazione anche il divieto d’analogia in malam partem, in assenza di una precisa previsione normativa, è impossibile che il mobbing possa essere di per sé sanzionato penalmente, magari in forza di un’interpretazione che estenda al caso non disciplinato dalle norme penali la regola prevista per il caso analogo, oggetto di specifica disciplina legislativa.
In conclusione, non essendo (ancora) il mobbing tipicamente regolato dal diritto penale, rebus sic stantibus è possibile solo:
a) attraverso mezzi frammentari, reprimere a tranche le singole azioni o omissioni che, individualmente considerate, possano avere i requisiti tipici delle singole fattispecie previste dal codice penale o dalle altre leggi speciali (come per esempio la L. 626/’96, sovente richiamata per il caso di violazioni di specifici obblighi antinfortunistici);
b) in alternativa, laddove venga sia rinvenibile la prova della continuità, della sistematicità e della reiteratezza dei contegni volti ad arrecare un nocumento alla persona destinataria delle vessazioni, far rientrare la fattispecie concreta nell’assunto dell’art. 572 c.p. che punisce il reato di maltrattamenti in famiglia.
Del resto già in passato l’accostamento maltrattamenti - rapporto di lavoro era stato adoperato a prescindere dall’ubicazione del reato nel Titolo XI del Libro II del Codice Penale dedicato ai “Delitti contro la famiglia”. Scavando negli annali della giurisprudenza è infatti rinvenibile una Cassazione, Sez. VI, del 24/09/1996 (in Giustizia Penale 1998, II, p. 84) emessa contro il datore di lavoro di una persona extracomunitaria a cui non veniva corrisposta retribuzione ed a cui sistematicamente era imposto di non uscire, di non comunicare con alcuno, di lavarsi e vestirsi in giardino, di non guardare la televisione e, un’altra, del Tribunale di Milano, del 02/07/1991, con cui venivano assolti dei dirigenti dell'organizzazione Scietology (perché i fatti si svolsero a Copenaghen) accusati di aver sottoposto persone in cerca di occupazione a ritmi di lavoro e di studio intensi, con retribuzione irrisoria, cibo scarso e sistemati in alloggi disagiati (in Diritto ecclesiastico, 1991, II, p. 419).
Cosa ha aggiunto allora a tutto questo la V Sezione Penale della Corte di Cassazione nell’agosto scorso? NULLA DI NUOVO!
In particolare, questa volta la vicenda all’esame della magistratura penale, rubricata inizialmente con l’imputazione del reato di lesioni personali volontarie, riguardava fatti di asserita e reiterata prevaricazione di un’insegnante di sostegno ad opera del preside di una scuola statale, da cui era derivato, secondo l’assunto della parte lesa e del pubblico ministero che aveva chiesto il rinvio a giudizio, l'indebolimento permanente dell'organo della funzione psichica della persona offesa.
Occorre premettere che già il GUP del Tribunale di S. Maria Capua Vetere aveva disposto il non luogo a procedere e il proscioglimento dell’imputato, in ragione dell’insostenibilità della tesi per la quale la mera alterazione del tono dell’umore lamentata dal lavoratore in questione si sostanziasse in delle vere e proprie lesioni (ovverossia, in un’infermità strictu sensu) e della mancanza di ogni prova circa la riconducibilità eziologica dello stato (non) patologico in discussione ad una ben circostanziata condotta offensiva, che potesse averlo determinato.
La Suprema Corte di Cassazione, mediante la pronuncia in parola, facendo proprie le conclusioni del Giudice di primo grado, ha quindi solo sostanzialmente riconfermato i seguenti principi già esplicati nei citati precedenti giurisprudenziali: 1) “La condotta di mobbing suppone non tanto un singolo atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell'esprimere l'ostilità' del soggetto attivo verso la vittima sia nell'efficace capacità di mortificare ed isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro...”; 2) “La prova della relativa responsabilità deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi... che può essere dimostrata per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa...”; 3) “La figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cd. mobbing e' quella descritta dall'articolo 572 c.p., commessa da persona dotata di autorità per l'esercizio di una professione; 4) “Risulta evidente che, soltanto per l'ipotesi dell'aggravante specifica della citata disposizione, si richieda la individuazione della conseguenza patologica riconducibile agli atti illeciti”;
Nulla di nuovo rispetto al passato, quindi, se non che ai fini dell’imputazione ex art. 572 c.p. non rileva (com’è evidente) la presenza di una malattia ricollegabile ai maltrattamenti perpetrati (se non quale aggravante del reato in questione). Recita per l’appunto la norma: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.”
Permangono, infatti, anche gli stessi dubbi e le stesse critiche al suesteso orientamento giurisprudenziale, giacché il collegamento fra il mobbing e il reato di maltrattamenti in famiglia continua a mostrare gli stessi limiti già rilevati a seguito della Cassazione Penale n. 10090 del 12 marzo 2001.
In particolare occorre rilevare che tale norma non permetterebbe ugualmente di perseguire il mobbing messo in atto da colleghi aventi una posizione gerarchica analoga o inferiore a quella del perseguitato, mancando in tal caso il presupposto tipico della fattispecie penale prevista dall’art 572 c.p. della “subalternità” o della “autorità” ovvero della “subordinazione” ed essendo al contempo impossibile far ricadere la responsabilità del parigrado sulla condotta omissiva del datore di lavoro (azienda), richiedendo la il reato in esame l’elemento del dolo generico ed essendo la responsabilità penale personale.
Difatti, molto criticato dalla dottrina fu all’epoca della Cassazione n. 10090 l'utilizzo da parte dei giudici dell'art. 2087 c.c. che consentì la condanna anche del titolare della ditta di vendita "porta a porta" attraverso il richiamo in motivazione dell’art. 40 c.p., per cui "non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo".
Ancora una volta quindi la divulgazione di una notizia enfatizzata da titoli accattivanti e a piena pagina a solo prodotto confusione. Servirà questo breve contributo a ridare maggiore chiarezza e la medesima intitolazione ad attirare la stessa attenzione?! |