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Con la sentenza n. 12517 del 3 aprile 2012, la Corte di Cassazione, Sezione 6 penale, torna a ribaditre che il reato suddetto non è riconoscibile neanche laddove l'ambiente di lavoro assuma alcune delle caratteristiche tipiche dell'ambito endo-familiare (cioè relazioni intense ed abituali, consuetudini di vita tra i soggetti interessati, soggezione di una parte con corrispondente supremazia dell'altra, fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia) e che, dunque, anche in questo contesto le vessazioni ripetute non possono assumere i connotati dei maltrattamenti in famiglia, con la conseguente applicazione della disciplina di cui all' articolo 572 c.p., ma piuttosto le condotte di "sistematiche, intenzionali e non giustificate aggressioni verbali" vanno riqualificate come violenza privata continuata ed aggravata ai sensi dell'articolo 61 c.p., n. 11, secondo l'insegnamento già indicato dalla nota Sez. 6, sent. 44803/2010.
Oggetto della sentenza in argomento è la vicenda di una donna assunta in un calzaturificio salentino a gestione famigliare, la quale subisce sistematici e continuativi insulti e gravi offese dai due imputati, padre e figlio, che insieme gestiscono di fatto la piccola azienda. Offese consistenti sopratutto in accuse del tutto infondate, tanto che i Giudici del merito immediatamente avevano già escluso la sussistenza di alcuna condotta della donna capace di offrire fondamento alle rimostranza dei datori di lavoro.
Ebbene, in questa situazione, il reato di maltrattamento in famiglia torna in ballo proprio in ragione delle ridotte dimensioni dell'azienda in cui avvenivano gli atti vessatori continuativi, per la presenza quotidiana dei datori di lavoro e per l'esercizio diretto, da parte loro, dei poteri di supremazia nei confronti dei dipendenti senza alcun intermediario.
In questo contesto, la Corte nel confermare la ricostruzione dei fatti operata dai Giudici di merito e nel richiamare la precedente sentenza della Sez. 6 n. 10090/2001 - che parimenti escludeva le condizioni in fatto per la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia in un rapporto tra preside ed insegnante -, ha sottolineato come "l'assidua comunanza di vita" non è comunque una situazione di fatto che può portare in senso favorevole all'applicazione "allargata" dell'articolo 572 c.p.
In sintesi, se è vero che l'ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti può, in concreto, potrebbe essere ricostruito - come nel caso di specie - anche laddove vi sia un rapporto di parafamiliarità del rapporto di sovraordinazione, caratterizzato per la sotto posizione di una persona all'autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l'affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all'azione di chi ha ed esercita l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, contrassegnate da ampia discrezionalità ed informalità, vero è anche che la fattispecie incriminatrice di cui l'art. 572 c.p. è inserita nel titolo dei delitti della famiglia ed indica nella rubrica la limitazione alla famiglia ed ai fanciulli, sicché non è possibile concretamente ritenere idoneo a configurarla il mero contesto di generico, e generale, del rapporto di subordinazione/sovraordinazione.
La decisione pare essere oltremodo logica e coerente. Del resto, se così non fosse, ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro per ciò solo dovrebbe configurare una sorta di comunità (para)familiare, idonea ad imporre la qualificazione in termini di violazione dell'articolo 572 c.p. di condotte che, di eguale contenuto, ma poste in essere in contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile (il ed mobbing in contesto lavorativo, cui fa riferimento tra le altre la sentenza Sez. 6, 685/2011), con evidente irragionevolezza del sistema.
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